domenica 15 luglio 2007

la Macchina Mondiale n. 3

Siamo lieti di presentarvi il terzo numero della rivista dei GC di Urbino: la Macchina Mondiale.
Anche in questo numero troverete tanti spunti, problematiche e temi su cui riflettere. Come al solito non mancheranno scritti di carattere culturale, politico, filosofico, storico, sociale, mitologico…materie e aree di pensiero e di azione, queste, che possono, e anzi dovrebbero più spesso, andare di pari passo...

Bernsteinismo in salsa bertinottiana

In questo editoriale vorrei però richiamare l’attenzione sull’ampia discussione che sta attraversando il nostro Partito e quelli cosiddetti della sinistra radicale. Il futuro politico del paese mi pare incerto e foriero di pericoli. Quali? Non può certo essere questa la sede migliore per affrontare quest’ampia discussione. Vorrei però evidenziare alcuni punti.
La nascita del Pd ha contribuito certamente a determinare un vero e proprio effetto “risucchio” che spinge le forze politiche di sinistra ad accalcarsi sempre più al centro, moderando così la propria ideologia.
Questa tendenza centripeta che ingabbia e modifica in senso moderato gli assunti ideologico-politici dei partiti è tipicamente caratterizzante le liberal-democrazie dell’Occidente (fra tutte, si guardi a quelle dei Paesi Anglofoni). In Italia a dimostrarlo è per l’appunto la deriva centrista del più grande partito della “sinistra” italiana (i Ds) unitosi (verticisticamente e in seno alle istituzioni parlamentari) con la Margherita. Siamo di fronte alla ricostruzione di una sorta di nuova Dc. La sinistra dei Ds, giustamente, non c’è stata e ha dato vita a un nuovo partito socialista.
Hugo Chavez
Ma noi comunisti cosa facciamo? Rivendichiamo anche noi, come ha fatto Mussi, la nostra identità e, approfittando del nuovo assetto del sistema partitico italiano così costituitosi (ricordo che Rifondazione è ora, dopo il Pd, il maggiore partito della sinistra) e delle nuove spinte antimperialistiche e anticapitalistiche mondiali (si pensi solo all’Africa, all’Eurasia, all’ America Latina con il nuovo e incoraggiante esperimento rivoluzionario del Venezuela), facciamo di tutto per rilanciare e rafforzare il Partito della Rifondazione Comunista?
Purtroppo la risposta è negativa: di fronte alla nascita di una nuova DC e di un nuovo PSI i compagni della maggioranza bertinottiana (e chi con loro: ricordo che i compagni rappresentati da Grassi e Burgio, avvicinatisi di fatto alla maggioranza, nonostante si dicano contrari al progetto della Rifondazione socialista, di fatto hanno indebolito la corrente minoritaria più forte del Partito, quella della seconda mozione, che si trova ora costretta, data l’urgenza, a negoziare un’alleanza, necessaria e dunque auspicabile, con le ali trotskiste) non sembrano infatti andare in questa direzione. Direzione, quella appunto del rivendicare il proprio essere comunisti lungi da ogni atteggiamento autofobo, che pure non dovrebbe essere sentita, da chi ancora è comunista o si dichiara tale, come caratterizzante una linea politica nostalgica, inattuale e settaria. Qui non si tratta cioè di una mancata unità di condivisione su tutti – o molti – punti programmatici. Questa non c’è mai stata tra le correnti del Partito (altrimenti queste sarebbero venute meno!); è in pericolo invece qualcosa di molto più importante: la presenza di una forza comunista in Italia. Ciò non significa solo la scomparsa di un simbolo, quello della falce e martello, e di un nome. Non è solo una questione puramente formale, ma di sostanza.
Che fine fa il nostro scopo di sempre, e cioè l’abolizione dello stato di cose presente, inteso come superamento del capitalismo? Un compito, questo, che può essere condotto, come la storia ci ha dimostrato e ci continua a dimostrare, solo con una forza comunista autonomamente organizzata, auspicata dallo stesso Lenin in altro luogo; la sola ad essere capace di cogliere le nuove sfide dell’imperialismo e di analizzarne le contraddizioni (oggettive) al fine di contribuire attivamente (soggettivamente) al superamento del sistema capitalistico! Altrimenti che fine ignobile facciamo fare a Marx a cui pure lo stesso statuto del nostro partito si richiama esplicitamente? Così infatti recita il suo preambolo:

“Il Partito della Rifondazione Comunista è libera organizzazione politica della classe operaia, delle lavoratrici e dei lavoratori, delle donne e degli uomini, dei giovani, degli intellettuali, dei cittadini tutti, che si uniscono per concorrere alla trasformazione della società capitalista al fine di realizzare la liberazione del lavoro delle donne e degli uomini attraverso la costituzione di una società comunista. Per realizzare questo fine il PRC si ispira alle ragioni fondative del socialismo ed al pensiero di Carlo Marx. Si propone di innovare la tradizione del movimento operaio, quella delle comuniste e dei comunisti in tutto il novecento a partire dalla Rivoluzione d'Ottobre fino alla contestazione del biennio 68 -'69 e al suo interno, quella italiana che muovendo dalla resistenza antifascista ha saputo pur costruire importanti esperienze di lotta, di partecipazione e di democrazia di massa. I comunisti lottano perché‚ in Italia, in Europa, nel mondo avanzino e si affermino le istanze di libertà dei popoli, di giustizia sociale, di pace e di solidarietà internazionali; si impegnano per la salvaguardia della natura e dell'ambiente; perseguono il superamento del capitalismo come condizione per costruire una società democratica e socialista di donne e di uomini liberi ed uguali, nella piena valorizzazione della differenza di genere, dei percorsi politici di emancipazione e di libertà delle donne, nonché in difesa della piena espressione dell'identità e dell'orientamento sessuali; avversano attivamente l'antisemitismo e ogni forma di razzismo, di discriminazione, di sfruttamento”. (corsivo e sottolineature miei).

Ma i bertinottiani sono davvero così ingenui da pensare che il capitalismo si possa superare con la Sinistra Europea, il Cantiere o qualsiasi altro soggetto vagamente di sinistra e filo-governista o ancora con un’entità socialista? Non credo. Manifestando infatti un’evidente deriva ideologica di tipo socialdemocratico (per quanto in senso massimalista) non si pongono con un atteggiamento radicalmente volto al superamento del capitalismo ma con un atteggiamento compatibilmente volto, tutt’al più, a contrastarne gli effetti, per così dire, più selvaggi. Facendo arrendevolmente di questo un fine, l’ultimo passo, la strategia e non, tutt’al più, un mezzo, il primo passo, la tattica per perseguire la costruzione di una società e di un modello di stato nuovo in senso comunista. Siamo di fronte, all’interno del nostro partito, all’egemonia di una logica compatibilista (di stampo socialdemocratico) su quella radicalista (di stampo comunista).
Le affermazioni di alcuni dei massimi dirigenti del partito sono, da questo punto di vista, davvero sconcertanti. Quel processo revisionistico e “di destra” aperto da Bertinotti (ora nuovo direttore di una rivista socialdemocratica: “Alternative per il socialismo”) nel partito fa capolino: “costruire un partito della Sinistra senza tante aggettivazioni”, “dar vita ad un nuovo soggetto politico vero” (dall’intervento al Cpn del 21/04), afferma, ad esempio, Alfonso Gianni (lo storico braccio destro di Bertinotti), il quale non perde così tempo a dichiarare a destra e a manca la sua ferma intenzione a costruire un partito che abbandoni definitivamente il progetto della Rifondazione Comunista. A consolarci sembrano invece essere le parole di Giordano che parla di “un patto di unità d’azione” (su Liberazione 1/05), il solo, a mio avviso, in grado di sintetizzare il rifiuto del settarismo – incapace di offrire realisticamente alternative concrete e d’azione - e del governismo politicista passante per la costituzione di unico partito e, dunque, per una forzata reductio ad unum. Parole sincere? O, dato il suo ruolo di segretario, solo finalizzate retoricamente a tranquillizzare e/o confondere la vasta platea di compagni (iscritti, elettori, simpatizzanti…) già in preda al caos? Come fa opportunamente notare Alessandro Montanari (de L’ernesto) il “patto di unità d’azione” (espressione piuttosto vaga) nell’accezione che ne dà Giordano potrebbe anche essere interpretato non come in antitesi rispetto a quanto affermato da Gianni, bensì come un primo passo verso la proposta di quest’ultimo. Scrive Montanari a questo proposito:

“vi sono contraddizioni strategiche oppure è solo un gioco tattico delle parti, in cui l’uno fa due passi avanti e l’altro uno indietro, così la somma fa un passo avanti, ma senza spaventare troppo i militanti comunisti? Abbiamo già visto nell’ultimo PCI questo tipo di operazioni e vorremmo evitare il bis, passando dalla tragedia alla farsa”. (A. Montanari, su L’ernesto, newsletter del 4/05/2007).

Dello stesso parere è anche Leonardo Masella (componente del Cpn, il massimo organismo dirigente del Prc):

“Solo se c’è il rilancio […] del processo di rifondazione di una moderna forza comunista con una ‘massa critica’, è condivisibile la proposta del segretario Giordano di un patto di unità d’azione, altrimenti questa appare solo come una tappa iniziale del processo di costruzione di una nuova formazione politica di sinistra e più moderata dentro cui superare e sciogliere, alla fine, il Prc come ha proposto […] Alfonso Gianni”. (L. Masella, su Liberazione, 15 Maggio 2007).

Deve sembrare a questo punto evidente che il superamento di questo partito, specie da quando siamo al governo, è esplicitamente auspicato dall’ala maggioritaria bertinottiana, a detta, sia pure con qualche divergenza (ad esempio a fini tattici, come nel caso appena esaminato), dei suoi stessi esponenti. Non resta invece che augurarsi il contrario, appoggiando apertamente chi, come Fosco Giannini (senatore), Gian Luigi Pegolo (deputato)e il succitato Leonardo Masella (tanto per fare i nomi degli esponenti di primo piano dell’area de L’ernesto), si batte contro questa deriva politico-ideologica e rilancia il progetto della Rifondazione comunista contro quello della Rifondazione socialista. Per dirla con Giannini, della pars costruens contro quello della pars distruens.
Concludendo, non posso non richiamare l’attenzione su un punto fondamentale: assurda e inaccettabile è l’accusa di settarismo e contrarietà all’unità dei partiti della sinistra radicale mossa dai bertinottiani contro L’ernesto. È proprio il contrario! Infatti come dimostra anche la fallimentare esperienza della Sinistra Europea, che invece di unire i partiti comunisti d’Europa ne ha tenuto una metà fuori (sic!),
Fosco Giannini
“la lunga storia del movimento operaio ci ha insegnato che le precipitazioni organizzativistiche e culturali, la soluzione dei problemi attraverso le frettolose sommatorie di forze diverse, specie quando tali sommatorie costringono i soggetti contraenti a comprimere e rimuovere la loro cultura e il loro senso d’esistere, hanno sempre portato male. Mentre oggi abbiamo bisogno come il pane di una sinistra d’alternativa – no, dunque, di una unificazione socialdemocratica – che sappia trovare sul campo, nel conflitto sociale e politico, nel progetto di trasformazione sociale, nel rapporto vivificante con i movimenti, la propria unità, che tanto più sarà possibile ed efficace quanto più sarà rispettosa dell’autonomia dei soggetti ed eviterà la pericolosa gabbia della ‘riduzione ad uno’”. (F. Giannini, su il Manifesto del 28 Aprile).

Leonardo Pegoraro



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“Essere comunisti significa credere che l'eguaglianza e la fratellanza degli uomini siano preferibili al dominio di una piccola parte sulla grande massa dell'umanità. Ciò comporta l'esigenza di rimuovere le cause materiali e politiche che sprofondano nella miseria, nella fame, nella non-libertà milioni di uomini. Essere comunisti significa assumere una prospettiva planetaria, riguardante la specie umana nel suo complesso. Il pensatore o l'uomo politico che resti nella prospettiva di una nazione o dell'Occidente è solo un provinciale che collabora ad un sopruso.”
(Romano Luperini)

SOMMARIO:


· Prolegomena alla lettura
di Nicola Serafini

· Usa. Quale democrazia?
di Leonardo Pegoraro

· Vita di Lenin
di Nicola Serafini

· Gramsci contra Trotski
di Emiliano Alessandroni

· Iustitia soror cruoris
di Nicola Serafini

· La falce senza il martello
di Nicola Serafini


“Al giovane comunista si impone di essere essenzialmente umano, tanto umano da accostarsi al meglio dell’uomo…sviluppare al massimo la sensibilità fino a sentire l’angoscia ogni volta che in qualsiasi angolo del mondo viene assassinato un uomo e fino a sentirsi entusiasta ogni volta che, in qualsiasi angolo del mondo, si innalza una nuova bandiera di libertà”

(Ernesto Che Guevara)






Prolegomena alla lettura

Questo terzo numero esordisce con un contributo di L. Pegoraro, Usa, quale democrazia? , in cui con una lucida e penetrante analisi, ma lineare e mai astrusa, l’autore palesa meccanismi e sordide verità sul regime vigente oggi in quel Paese (ironicamente Serafini propone una interessante etimologia per la parola “americani”, che suona come “i cani senza-partito”: ameris-cani, dal greco μέρις, fazione, partito, per cui a-meris diviene “senza partito”), senza cedere alla tentazione di vacue dissertazioni fini a sé stesse, bensì mantenendo salda la rotta verso una puntuale disamina.
Prosegue poi con una breve biografia, novità del presente numero, stesa da N.Serafini attorno alle principali vicissitudini della vita di Lenin; non ostante la limitata disponibilità di spazio ed una programmatica istanza divulgativa, tale testo non manca comunque di offrire un valido compendio al lettore che desideri una prima, rudimentale informazione sulla vita del rivoluzionario, spesso eclissata dal peraltro prestigioso acume ideologico.
Sèguita un contributo, offerto da E.Alessandroni, Gramsci contra Trockji; non sarà inopportuno notare che esso consiste nella conversione di un capitolo, estrapolato da un ben più vasto scritto dello stesso Alessandroni (Gramsci, la filosofia della praxis), pertanto andrebbe letto nella sua collocazione primigenia; ciò non ostante, anche orfano della sua originale cornice, tale testo acquisisce una buona autonomia saggistica, ed è pleonastico dire che discetta attorno ai nodi tematici delle due ideologie contrapposte.
Iustitia soror cruoris, firmato da N.Serafini, verte su di un periodo, la fine degli anni Cinquanta del ventesimo secolo, un poco ombratile nella storia francese, in cui De Gaulle ottiene i pieni poteri e gli organi paramilitari si sentono abilitati all’utilizzo di maniere ben poco ortodosse alfine di estorcere confessioni, forse memori della funzione dell’Inquisizione nella storia moderna; viene in questa sede riportata la testimonianza, di un immigrato arrestato e torturato, dell’esecrabile metodo e della deliberata sinecura che gli organi giudiziari palesavano nei confronti di tali barbarie.
Da ultimo, un placido excursus in ambito mitologico, in cui N.Serafini guida il lettore, anche e soprattutto sprovvisto di una solida formazione mitologica, attraverso alcuni episodi centrali del racconto mitico, rintracciando en passant i momenti in cui compare una “falce”, ed il titolo, La falce senza il martello, vuole essere un ironico motto di spirito, in quanto il sostrato di codesto intervento è puramente dilettevole; ciò non prelude assolutamente ad un’analisi che non sia compiuta comunque con il massimo rigore e la dovuta alacrità.


Nicola Serafini




USA. QUALE DEMOCRAZIA?

“Negli Stati moderni il cosiddetto
sistema democratico è di solito
monopolizzato dalla borghesia
ed è divenuto null’altro che uno strumento
per opprimere il popolo. Secondo il principio
della democrazia […], invece, il sistema
democratico è un bene comune del popolo
e non qualcosa che pochi individui
possono appropriarsi”
(Sun Yat-Sen).



Analizziamo, sia pure per sommi capi, quanto le affermazioni dell’ideologia liberale e della sua vasta schiera di pensatori siano in contrasto non solo alla pratica realizzata dagli Stati cosiddetti “democratici”, ma persino contraddittorie a quei principi tipici del liberalismo stesso. È su quest’ultimo aspetto che porremo maggiore attenzione, osservando con occhio critico soprattutto gli USA in quanto ritenuti, pressoché unanimemente, un baluardo di grande democrazia e un modello da difendere, emulare ed esportare.
Iniziamo descrivendo quelle contraddizioni relative ai temi più caldeggiati dal liberalismo e argomentando e “vivacchiando” sui quali questa ideologia pretende di porsi all’avanguardia dell’interpretazione della volontà effettiva del popolo e del suo interesse generale. Non risulterà poi così ardua questa impresa che pure si pone come fine ambizioso quello di demolire (nei limiti che lo spazio mi consente) i fondamenti stessi dell’ideologia dominante borghese.

Un degno politologo (Pasquino[1]) che muove coerentemente i suoi passi sulle orme di Bobbio e Sartori, così scrive a proposito del voto democratico: “Nessuno vorrà più mettere in discussione che il voto democratico debba essere universale (cioè, esteso a tutti), uguale (cioè, tale che ogni voto conti quanto ogni altro)”[2].
Bene. Peccato però che questi tre eminenti liberali (e chi con loro), nel considerare gli USA un paese democratico, sottovalutino una enorme contraddizione: proprio nel paese d’oltre Oceano il voto non è né universale né uguale!





1. Perché negli USA il voto non è universale?

Ci aiuta a rispondere lo stesso Pasquino:
“Negli Stati Uniti continuano a esistere barriere informali, ti tipo legale e istituzionale, che spostano sui cittadini tutto il peso dell’esercizio del diritto di voto, imponendo difficili requisiti di iscrizione nelle liste elettorali, di residenza, di afflusso alle urne - poiché si vota in giorni lavorativi, in ore lavorative ( come, peraltro anche in Gran Bretagna )”[3]

Così molti statunitensi oltre ad essere ostacolati “nell’esercizio del diritto di voto” – cosa che rappresenta anche una violazione del principio del voto libero concepito come voto esente da costrizioni - ne sono oggettivamente privati. Questo perchè negli USA i cittadini devono iscriversi nelle liste elettorali: non sono automaticamente elettori, dal momento che l’acquisizione di tale diritto sta in un loro atto volontario. Così la registrazione nelle liste elettorali non è compiuta dallo Stato, ope legis, ma è esclusivamente a carico dell’elettore. Il risultato è che a farne le spese sono soprattutto i cittadini più poveri. E sul fatto che siano i ceti popolari quelli ad essere più riluttanti o che trovino maggiore difficoltà a sbrigare le pratiche burocratiche necessarie, converge una moltitudine elevata di politologi, sociologi e intellettuali più o meno liberali (americani e non).
In questo modo si può spiegare in larga misura il fenomeno dell’astensione dilagante che tocca una media superiore al 50% per le elezioni del Presidente e che addirittura risulta ancor più alta per le elezioni parlamentari[4]. Ecco spiegato perché non si possa parlare negli USA di voto universale. E a maggior ragione non se ne poteva certo parlare fino al vicino 1966; è solo in questa data infatti che due sentenze della Corte Suprema dichiararono incostituzionali sia i testi per accertare i gradi di cultura e di alfabetizzazione per l’ammissione ai diritti politici, sia i requisiti che chiedevano il pagamento di una tassa per essere ammessi al diritto di voto[5]. Ultime disposizioni, queste, di un retaggio tutto liberale: gli USA sono stati, specialmente a partire dall’indipendenza dall’Inghilterra, il più grande “Stato razziale” senza precedenti nella storia e l’orribile quanto originale connubio di un “apartheid razziale” - a cominciare dai pellerossa espropriati delle loro terre, deportati e barbaramente sterminati e dai neri deportati dall’Africa e schiavizzati - e di un “apartheid sociale” - nei confronti degli strati più poveri della stessa comunità bianca[6].

2. Perché negli USA il voto non è uguale?

Come sia difficile affermare ancor oggi che negli USA sia concretamente realizzato il principio del voto universale è già stato brevemente considerato. Passiamo ora al concetto di voto uguale.
Occorre qui ricordare che il suffragio nordamericano è di duplice grado, basato cioè su di un meccanismo indiretto di elezione. Il suffragio indiretto produce degli “inconvenienti” a detta persino degli stessi liberali, o almeno di quelli più accorti e più progressisti. Vediamo se sono inconvenienti su cui si può sorvolare o se stridono fortemente con la regola numero uno della democrazia: tutti i voti contano alla stessa maniera.
Risultando di maggior peso il voto degli elettori dei piccoli Stati possiamo già da subito affermare che il voto dei cittadini ha un valore diseguale. Ciò accade perchè a votare per il Presidente non sono direttamente i cittadini ma i cosiddetti “elettori presidenziali”, spettanti in egual numero a ciascuno Stato. Ed è proprio per questo meccanismo indiretto di elezione – e, come vedremo subito, per il sistema maggioritario - che può verificarsi anche che venga eletto il candidato che ha ottenuto un numero inferiore di voti popolari. Ciò è avvenuto nelle elezioni del 1876, 1888 e 2000. Infatti sette anni fa il candidato repubblicano Gorge W. Bush ha ottenuto 540.000 voti popolari in meno del candidato democratico Al Gore! Come se non bastasse, la sua elezione è stata imposta subito dopo la controversa vittoria nello Stato della Florida, con una decisione della Corte Suprema che ha impedito la verifica dei voti di questo Stato. Si è così violata anche quella basilare regola democratica secondo cui i voti vanno contati: quello di Bush è stato una sorta di golpe illegittimo.
Il sistema elettorale maggioritario Plurality (a turno unico e con collegio uninominale) rappresenta un’ulteriore violazione del principio del voto uguale. Infatti, dal momento che chi prende la maggioranza anche solo relativa dei voti di un collegio elettorale ne è l’unico rappresentante, accade che vi sia uno scarto altamente sproporzionato tra il numero dei seggi attribuiti al partito più votato e il numero dei voti da questo effettivamente conseguiti. Questo antidemocratico sistema elettorale oltre che dagli USA è utilizzato anche dal Regno Unito. Qui le elezioni parlamentari del 2005 hanno visto i laburisti conquistare la maggioranza assoluta dei seggi con appena il 35% dei voti. Ma il 35% di quelli espressi. Infatti se volessimo considerare tutti gli aventi diritto vedremmo che l’attuale governo di Blair è stato votato solo dal 20% della popolazione inglese! In media, ogni deputato laburista è stato eletto con 26.877 voti, quello conservatore con 44.251 voti e i liberaldemocratici hanno avuto bisogno addirittura di 99.378 voti per deputato. Alla faccia del principio del voto uguale secondo cui tutti i voti devono contare alla stessa maniera!

3. Le democrazie liberali e le democrazie elettorali secondo Diamond.

Il liberale Diamond distingue:

“tra democrazie liberali nelle quali: a) i diritti civili e politici sono riconosciuti e tutelati; b) viene rispettato il governo della legge (rule of law); c) la magistratura è indipendente e sono indipendenti molte autorità amministrative; d) si è sviluppata una società pluralista e vivace con mezzi di comunicazione non soggetti a controllo governativo; e) i civili esercitano il controllo sui militari, e le democrazie puramente elettorali, dove certamente si vota, ma dove uno o più di questi principi non sono rispettati e vengono frequentemente violati”[7].

È chiaro così che, quando ci si imbatte in quest’ultimo caso, ci si trovi in presenza di Stati i quali solo nominalmente possono definirsi democratici. Ovviamente, dal punto di vista di Diamond, l’Europa occidentale e i paesi anglofoni sono senza ombra di dubbio democrazie liberali. In realtà questa distinzione apportata da Diamond ci aiuta a mettere in luce che negli USA i principi sopra elencati sono tutt’altro che rispettati e che dunque siamo di fronte ad una democrazia puramente elettorale. Per quanto concerne il primo punto, abbiamo già visto con la violazione del principio del voto universale e uguale quanto non si possa affermare tout court che negli USA i diritti civili e politici sono tutelati. Così come, tra i tanti altri esempi che si potrebbero apportare, non viene riconosciuto nessun diritto ai “sospetti combattenti nemici” rinchiusi senza processo a Guantanamo, un vero e proprio campo di concentramento dove si pratica diffusamente ogni tipo di tortura. Sarebbe sufficiente la violazione del primo punto appena dimostrata a fare degli USA una democrazia elettorale - almeno nell’accezione indicataci da Diamond. Ma, per fugare ogni dubbio, consideriamo anche il secondo punto indicato sopra: è sufficiente pensare, a seguito dello stato d’eccezione decretato dopo l’11 Settembre 2001, ai poteri straordinari attribuiti a Bush come “comandante in capo” o ancora alle leggi liberticide ( Patriot Act ) per capire che non vi è una vera e propria subordinazione del potere esecutivo a quello legislativo e che dunque non viene rispettato il governo della legge. Come, relativamente al terzo punto, non possiamo nasconderci dietro un dito e non vedere che anche il potere giudiziario è subordinato a quello esecutivo: pensiamo solo al braccio di ferro tra governo e Corte Suprema sul caso Guantanamo. Continuando, sarebbe da chiederlo a Noam Chomsky cosa ne pensa a proposito del terzo punto e sulla presunta libertà di stampa, parola ed espressione vigente nel suo paese, visto che questo grande glottologo e scrittore è costretto a pubblicare i suoi libri oltre i confini degli USA a causa dei suoi scomodi giudizi sulla società politico – economica statunitense. O ancora basta prendere la classifica di Reporter senza frontiere e leggere che, su 168 paesi, gli USA, per quanto concerne la libertà d’informazione, si collocano al 53mo posto condividendo l’imbarazzante compagnia di Tonga, Croazia, Botswana. Difatti:

“Le corti federali - in controtendenza con la giurisprudenza delle corti supreme di 33 Stati - rifiutano di riconoscere ai giornalisti il diritto di proteggere le proprie fonti, anche in procedimenti che con il terrorismo non hanno nulla a che fare. […] Josh Wolsh, giornalista freelance con un blog molto seguito, è stato sbattuto in prigione per essersi rifiutato di consegnare il suo archivio video digitale. Sami al-Haj, cittadino sudanese, cameraman dell'emittente araba al-Jazeera, è rinchiuso nel lager di Guantanamo dal giugno del 2002, bollato come combattente nemico e nessuna specifica accusa formulata contro di lui. Bilal Hussein, fotografo dell'Associated Press, è detenuto dall'aprile di quest'anno [ del 2006, ndr ] senza nessun altra spiegazione che un cognome inviso all’amministrazione”[8].

Infine, analizzando l’ultimo punto, non si direbbe certo che i civili siano esenti dalle pressioni dei militari considerando il peso che questi e le potenti lobby della guerra sono venuti ad assumere, specie alla luce delle ultime azioni belliche. A mero titolo esemplificativo, si pensi solo al fatto che, per quanto concerne la politica estera, Gli USA spendono per la difesa il doppio dell’insieme degli altri membri della NATO. Che la California, “dove sono collocate le industrie missilistiche, le industrie dell’aviazione militare ed elettroniche”, vive in gran parte sul bilancio militare degli Stati Uniti”[9] e che “la sola economia” di questo Stato “è più grande di quella Cinese”[10]. D’altro canto non è un segreto, per dirla con Paul Kennedy, che “tutte le altre Marine del mondo messe insieme non potrebbero minimamente intaccare la supremazia militare americana”. Anche volendo considerare la politica interna si arriva alla stessa conclusione: sono le lobby militari che dettano le regole ai civili e non il contrario. Un esempio? Di fronte alla strage della Virginia Tech (“il più grave massacro della storia americana”: 32 studenti e professori uccisi da un allievo ventenne), Bush “ha fatto sapere di essere ‘inorridito’ da quanto accaduto” ma ha confermato subito - e cinicamente - la sua ferma “intenzione di non mettere mano alle leggi che regolano la vendita di armi nel paese”. Come dire: “pietà per le vittime della Virginia Tech, ma ancora di più rispetto per la lobby dei fabbricanti di armi”. Insomma “non c’è strage in grado si far cambiare idea al presidente degli Stati Uniti”[11].

Va da sé che, secondo lo schema fornitoci da Diamond, non siamo di fronte ad una democrazia liberale. Ci troviamo dunque di fronte ad una democrazia puramente elettorale? Sì. Ma aggiungerei anche che gli USA, considerate le violazioni di quei principi basilari della liberal-democrazia relativamente ai concetti di voto uguale e universale, si caratterizzano come una pessima democrazia elettorale. Ossia il paese d’oltre Atlantico, democratico per antonomasia, si rivela un regime pessimo persino sul piano meramente formale.

4. “Governo unitario imperiale” e “governo diviso corrotto”

A seconda che il Presidente abbia la maggioranza o la minoranza dei parlamentari del suo partito in entrambi i rami del Congresso si è soliti dire che vige, rispettivamente, un governo unitario o un governo diviso. Il primo caso, grazie anche alle carenti indicazioni costituzionali relativamente al ruolo e ai poteri del Presidente, è sicuramente esemplificato dalla Presidenza del democratico L. Johnson (1963 – 1968) e, soprattutto, del repubblicano R. Nixon (1968 – 1974). Il rafforzamento del ruolo della Presidenza - già avviato da A. jackson (1829 – 1837), A. Lincoln (1861 – 1865), T. Roosevelt (1901 – 1909), W. Wilson (1913 – 1921) e F. Roosevelt (1933 – 1945)[12] – ha finito col prevaricare in più occasioni il Congresso e l’opinione pubblica. Ed è proprio contro questo pericolo che lo storico M. Schlesinger, consigliere di Kennedy, scrisse il famoso libro “La presidenza imperiale”[13].
Mentre nel caso del governo diviso il Presidente si trova a fare i conti con una maggioranza dell’altro partito in uno o in entrambi i rami del Congresso, come è avvenuto per 26 anni su 32 dal 1968 al 2000. Ciò determina necessariamente l’indebolimento dell’esecutivo. Così il Presidente, per superare l’empasse politico–istituzionale, si trova costretto a praticare una sequenza di procedimenti di negoziazione con il Congresso e con i suoi dirigenti. Questi procedimenti consistono in tutta una serie di pratiche clientelari e localistiche con la concessione, da parte del Presidente, “di benefici/vantaggi selettivi ai senatori e ai rappresentanti che hanno maggiore potere o influenza in modo da ottenere l’esito sperato. Il conto […] lo pagherà il contribuente poiché le operazioni clientelari hanno evidentemente dei costi”[14]. Insomma, parte delle tasse pagate dagli americani servono alla governabilità del paese. Come se, colpevoli, dovessero pagare il fatto di non aver consegnato un governo unitario alla classe dirigente.
Il governo diviso comporta altri “inconvenienti”: i cittadini non sono in grado di capire chi ha promosso determinate politiche piuttosto che altre proprio perché le responsabilità dei diversi organi appaiono appannate. È doveroso ricordare che ciò vale anche per l’elettore più interessato e più informato! Viene così colpito un altro principio democratico: l’accountability, ossia il dovere, da parte del governante, di rendere conto all’elettorato quello che è stato fatto e quello che è stato omesso.
Non c’è dubbio: siamo in presenza in un caso di un governo unitario imperiale, che fa del Presidente e dei collaboratori da lui scelti gli uomini più potenti del pianeta, e nell’altro di un governo diviso corrotto che fa della corruzione una pratica quotidiana volta a consentire alla classe dominante di esercitare il suo potere senza troppi impedimenti.

5. Il sistema politico, i gruppi di pressione (lobby) e la personalizzazione della politica

"In nessun paese i politici formano nella nazione un clan così isolato e potente come nell'America del Nord. Quivi ciascuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere, viene esso stesso regolato da gente che fa della politica un affare, che specula sui seggi [...], si nutre dell'agitazione per il proprio partito e dopo la vittoria di questo viene ricompensato con dei posti. [...] Qui non esiste né dinastia, né nobiltà, né esercito (a parte un piccolo nucleo di soldati addetti alla vigilanza dei pellirossa), né burocrazia con impieghi stabili e diritto a pensione. Abbiamo due grandi rackets di speculatori politici che si alleano per impadronirsi ed avvicendarsi al potere dello Stato, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e per i fini più rivoltanti. La nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che pretendono di essere al suo servizio ma in realtà la soggiogano e la saccheggiano."
(F. Engels)


“Si rivela una coincidenza pressoché generale fra gli scrutini maggioritari a turno unico e il bipolarismo: i paesi dualisti sono maggioritari e i paesi maggioritari sono dualisti”[15]. Infatti negli USA vige il sistema elettorale maggioritario e il sistema politico è bipartitico: il partito repubblicano e quello democratico. Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, entrambi i partiti sono fortemente deboli. Non sono partiti di massa e non sono portatori di un marcata ideologia. I politici dell’uno e dell’altro partito spesso si distinguono difficilmente sul piano ideologico. Il partito lascia molto “liberi” i propri componenti che sono così portati a votare secondo la loro coscienza o interesse individuale. Sono partiti di quadri (come direbbe Duverger) o partiti di notabili (come direbbe Weber) fatti per l’appunto da notabili, tecnici, finanziatori che si attivano solo nei giorni delle elezioni. A differenza dei partiti di massa che vivono di tesseramenti, attività collaterali e, quando c’è, di finanziamento pubblico, quelli statunitensi sono finanziati da privati e per lo più dai gruppi di pressione. Non a caso i cosiddetti Congressmen (i parlamentari) sono sempre confermati nella carica nelle successive elezioni (con una percentuale del 90%). Ciò, è superfluo precisarlo, si verifica dal momento che questi promuovono politiche atte a “ricambiare il favore” alle lobby che hanno sostenuto la loro campagna elettorale innestando così un circolo vizioso che consente sempre agli stessi di occupare la “poltrona”.
È chiaro: le lobby esercitano un peso indiscutibilmente decisivo nella scelta dei governanti.
Così questi due partiti si rivelano in realtà un insieme atomizzato di politici che assume spesso - specie nel caso del governo diviso – le sembianze di un unico partito. Un grande partito di centro diviso storicamente in due tronconi, il quale, di fatto, non permette l’ingresso nell’arena/mercato della competizione partitica a organizzazioni nuove. Siamo in presenza di due tipi di “partito cartello”[16] che, rispecchiando il sistema economico oligopolistico sul piano politico, hanno stipulato o stipulano di volta in volta un accordo per limitare la concorrenza di altre eventuali forze partitiche - che pure , sulla carta, hanno il diritto di esistere e di partecipare alle elezioni.
Inoltre, dobbiamo considerare che in campagna elettorale risultano decisivi non solo la quantità di denaro che ciascun candidato e ciascun partito possono raccogliere e profondere nella ricerca dei voti ma anche le possibilità di accesso alla propaganda televisiva. Ciò contribuisce di certo a fomentare quel fenomeno che prende il nome di personalizzazione della politica. Questo è un fenomeno che si sta diffondendo a macchie di leopardo e sempre con più intensità anche nel resto dell’Occidente. Cosa significhi la personalizzazione, la spettacolarizzazione e, per usare una sola parola che contenga in sé entrambi i significati delle precedenti, l’americanizzazione della politica è presto detto:

“[essa] incoraggia la politica delle celebrità contro la politica delle iniziative di policy, dei programmi e dei principi che trova espressione in partiti politici che cercano di promuovere l’interesse pubblico[…]. Gli imprenditori, i ricchi, i personaggi televisivi, gli attori, i lottatori, i clowns, i quali attirano l’attenzione dei media sfidando i partiti e distraendo gli elettori, raggiungeranno probabilmente i vertici, diminuendo così la qualità del dibattito politico”[17]
È indubbio che la personalizzazione della politica metta in primo piano le qualità personali e fisiche della persona che va a candidarsi e non certo le sue idee politiche, il suo programma. Gli esempi sono tanti: (considerando la categoria degli attori) i più noti vanno da Ronald Wilson Reagan, Governatore dello Stato della California e poi 40° Presidente degli Stati Uniti d’America (1981 - 1989) fino a Arnold Alois Schwarzenegger, attuale Governatore della California. Ma voglio riportare un fatto curioso che ci mostra quanto la politica possa essere svilita e toccare il fondo. Siamo in Inghilterra. Nel corso della sua campagna elettorale, quello che verrà poi eletto a sindaco di Hartlepool, indossa un costume da scimmia, lo stesso della mascotte della locale squadra di calcio[18]!

6. Apologia e stigmatizzazione dell’apatia e dell’indifferenza: Huntington versus Hegel

S. Huntington, celebre per la sua teoria delle ondate di democratizzazione e di riflusso degli Stati (dal 1828 al 1975) ampiamente condivisa dagli altri autori liberali e per le sue tesi di “scontro di civiltà” tra Islam e Occidente, non è invece altrettanto noto per aver dichiarato che le dimostrazioni di piazza e di protesta sono pericolose per l’ “ordine democratico”. Questo liberale si spinge oltre: “la gestione efficace di un sistema democratico richiede in genere un certo livello di apatia e di non partecipazione da parte di alcuni individui e gruppi” [19]. Siamo di fronte ad una vera e propria apologia dell’apatia e dell’indifferenza delle masse - o di una loro parte, magari meglio, come negli USA, se consistente - giustificata come mezzo indispensabile per la democrazia. Come dire: meno democrazia per la democrazia. Una contraddizione su cui non si può certo sorvolare; specie se ad affermare ciò è un esponente emerito di una ideologia che si considera l’indiscusso tutore della democrazia e della rappresentatività popolare. Non sembrano però essere di questo avviso i liberali che lo citano con tanto di elogi (tra cui Pasquino[20]). D’altro canto abbiamo già visto quanto essi siano dei veri maestri nell’edulcorare quegli aspetti più ambigui (per usare un eufemismo!) della loro ideologia.
Così possiamo osservare che l’apologia dell’indifferenza e dell’apatia è un aspetto che, più o meno esplicitamente, sembra permeare l’ideologia liberale, nonostante ufficialmente questa preferisca, quando può, mostrarsi con tutt’altra veste.
Perché vi sia un certo grado di apatia tra la popolazione è necessario (anche se non sufficiente) che tra questa sia ampiamente diffusa l’dea che il popolo sia un mero e indistinto aggregato di persone private. Contro questa tesi si era già scagliato Marx spiegando che considerare l’uomo come un “uomo generico” avulso dalla realtà storica e sociale in cui vive è solo un’astrazione mistificante. Aveva capito che non è l’uomo a fare la storia ma sono gli uomini reali storicamente determinati e organizzati in classi a costituirne il motore che la muove. Ma voglio ricordare che, ancor prima di Marx, è stato Hegel a criticare e definire irrazionale quella concezione liberale che dissolve la concreta articolazione della società civile in “una moltitudine di individui”. In un ammasso di singoli atomi slegati l’uno dall’altro. Scagliandosi così contro un modo di intendere lo Stato nel quale la volontà del singolo scompare nell’anonima moltitudine di individui privi di ogni significato politico, Hegel ha voluto sottolineare che, per evitare che l’elezione dei deputati si riduca a “qualcosa di superfluo o a un “giuoco”, essi devono essere considerati non come “rappresentanti di singoli, di una moltitudine, ma rappresentanti di una delle sfere essenziali della società, rappresentanti dei suoi grandi interessi”. Così il rappresentare non ha il “significato che uno sia in luogo di un altro, ma al contrario è l’interesse stesso ad essere realmente presente nel suo rappresentare”[21]. Ma dal momento che ciò non si verifica, la partecipazione politica attraverso l’istituto del voto si riduce alla fittizia possibilità di esprimere un’opinione, una volta ogni qualche anno, in mezzo a una moltitudine di voti. A tal proposito così continua Hegel:

“Circa l’elezione mediante i molti singoli si può […] osservare che in particolare nei grandi Stati sopraggiunge necessariamente l’indifferenza verso il dare il proprio voto, in quanto esso, nella moltitudine quantitativa, ha un effetto insignificante; e che gli aventi diritto al voto, per quanto questo diritto venga loro vantato e presentato come qualcosa di elevato, non si presentano appunto a votare; - sicchè da tale istituto segue piuttosto il contrario della sua destinazione, e l’eleggere cade in potere di pochi, di un partito, e quindi di quel particolare accidentale interesse che […] avrebbe dovuto essere neutralizzato”[22].

Non possiamo certo non accorgerci di quanto siano ancora attuali queste parole. Sembrano scritte per descrivere la realtà statunitense odierna. E direi che non c’è motivo di aggiungere altro. Ci tengo però a precisare che in queste affermazioni non si deve leggere un’ostilità nei confronti dell’estensione del suffragio, ma piuttosto la critica di quella concezione astratta tutta liberale che conduce irrimediabilmente a sancire (e perseguire) la separazione della vita civile da quella politica. In più parafrasando le parole del filosofo tedesco possiamo cogliere anche la sua volontà di mettere in guardia da una semplicistica e mistificatoria identificazione di “elezioni” e “democrazia”- spesso ancor’oggi utilizzata a fini puramente propagandistici. Ora è facile comprendere quanto, i più ortodossi mi perdoneranno il paragone, il pensiero di Hegel muova in una direzione diametralmente opposta a quello di Huntington. Infatti mentre il primo, stigmatizzando l’indifferenza, fa della democrazia un fine conferendo un significato sostanziale e autentico a questa parola, il secondo teorizza e giustifica l’apologia dell’apatia riducendo così il concetto stesso di democrazia ad un mero mezzo per legittimare la classe dominante e la sua leadership politica. La democrazia da contenuto a forma, da fine a mezzo.

7. La Herrenvolk democracy

“...Ciò che soprattutto mi piace di Mussolini è che egli dice al popolo la verità spiacevole quando l'occasione si presenta, invece di dipingere un fantasma di prosperità “just around the corner”. Sono rimasto ammirato dal modo come concepisce e risolve i maggiori problemi del giorno. Ammiro Mussolini per la resurrezione dell'Italia e per la restaurazione del suo prestigio all'estero. Mussolini deve passare alla storia non soltanto come restauratore delle fortune della sua Patria, ma anche come il costruttore di una migliore forma di convivenza tra i popoli”. (Franklin D. Roosvelt)
«...Il genio romano è impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente. Egli ha pensato esclusivamente al bene duraturo del popolo italiano come egli lo concepiva, e null'altro al di fuori di quel bene ebbe veramente importanza per lui... Se fossi italiano sono sicuro che sarei del partito di Mussolini».(Winston S. Churchill )


Possiamo così affermare che:

“il sistema cosiddetto ‘democratico’ vigente in USA e in Europa può accostarsi, per molti apsetti, alla pratica ateniese, dove una élite proveniente dai ceti mercantili e industriali […] dirige la cosa pubblica facendosi periodicamente legittimare dalle masse”[23]

Le elezioni e la “numerazione dei ‘voti’”nei paesi capitalistici devono essere infatti ancor oggi intese non come un mezzo che il popolo utilizza periodicamente per scegliere l’élite dirigente quanto piuttosto come “la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene” all’élite già al potere. Quest’ultima, tramite le elezioni e il conteggio dei voti, misura la propria “efficacia” e la propria “capacità di espansione e di persuasione” tra le masse, dal momento che è essa stessa il “centro di formazione, di irradiazione, di diffusione” delle “idee” e delle “opinioni”, le quali “non ‘nascono’ spontaneamente nel cervello di ogni singolo”[24] come vuole invece la vulgata borghese. In conclusione, guardando allo Stato d’oltre Atlantico, ci troviamo di fronte ad un regime, caratterizzato da discriminatorie clausole d’esclusione, che si presta bene alla qualifica di dittatura borghese o, se si preferisce, di “Herrenvolk democracy”, ossia una “democrazia per il popolo dei signori”. Secondo un’idea, per l’appunto quella di “Herrenvolk”, cara anche al nazismo. Vorrei infatti ricordare, a tal proposito, l’ammirazione di Rosemberg e di Adolf Hitler per la “teoria” e la “pratica razziale [entrambe di matrice indiscutibilmente liberale, N.d.T.] del sud degli Stati Uniti e, più in generale, per la tradizione coloniale dell’Occidente” [25]. Così non deve stupirci che il costruttore di automobili Henry Ford, ancora oggi considerato negli USA un esempio di grande industriale moderno, con il suo “The international Jew” (L’ebreo internazionale), abbia ispirato fortemente Hitler. Le parole di quest’ultimo sono inequivocabili: “Noi consideriamo Henry Ford come il leader del movimento fascista in ascesa in America”. Hitler gli rende omaggio nel Mein Kampf, dove “le idee espresse in The international Jew sono onnipresenti, e non mancano i passaggi trascritti quasi alla lettera”, e nel suo ufficio privato. In una parete vi è infatti appeso un grande ritratto dell’industriale americano e sul tavolo vi sono sparse numerose copie del suo libro[26].
Veniamo ai giorni nostri. Inaugurando il suo primo mandato presidenziale, “dopo aver ricordato il patto intercorso tra ‘i nostri padri fondatori’ e ‘l’Onnipotente’, Clinton sottolinea: ‘La nostra missione è senza tempo’”[27]. Queste parole e quelle di Bush, che, nel corso della campagna elettorale, proclama: “La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo”[28], non sembrano distinguersi poi molto da quelle di Ford: “la razza ‘anglosassone’, ‘ariana’, ‘bianca ‘europea’ o ‘anglosassone-celtica’, che nel suo sangue porta la civiltà e ha attraversato l’Oceano per fondare l’America: ‘Sono il popolo dominante (the Rulling people) che nel corso dei secoli è stato scelto per regnare sul mondo’”[29].

8. Saperne di più

Quanto detto fin qui non può certo considerarsi una esauriente e completa critica agli USA e a molti luoghi comuni dati oggi acriticamente per scontati e dunque per veri. Vuole piuttosto essere un contributo capace almeno di mettere al lettore qualche serio dubbio su quanto comunemente si sente affermare, pressoché all’unanimità, dai mezzi di comunicazione di massa e, influenzata e indirizzata da questi, dalla maggior parte della gente con cui si trova a vivere e a condividere pensieri, idee, letture, esperienze. A tal proposito non possiamo non ricordare un grande detto di Hegel: “Ciò che è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale”[30].
Credo che ora, e mi avvio alla conclusione, si possa fare una breve precisazione di carattere etimologico, dicendo che, a mio avviso, sono da attribuirsi due significati principali alla parola democrazia. Questo termine di derivazione greca significa infatti: 1) governo del e dal popolo; e 2) governo per il popolo. Dovrebbe ormai essere chiaro che abbiamo fin qui focalizzato l’attenzione sulla prima accezione di questo concetto. Infatti se avessimo voluto analizzare la seconda accezione del termine avremmo dovuto mettere in luce quali contraddizioni sostanziali e di mero effetto pratico attraversano la realtà sociale statunitense, ossia quelle che riguardano direttamente le politiche dei governanti che ricadono sui governati. In più, se si volesse condurre un’analisi completa, questa non potrebbe definirsi tale se evitasse di osservare almeno le più grandi contraddizioni relative ai rapporti che gli USA hanno egemonicamente instaurato (e che continuano imperterriti a imporre) nei confronti degli altri Stati nazionali, ovvero degli altri popoli che abitano il pianeta. Stracciando di fatto il diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla loro sovranità nazionale e, in ultima analisi, alla vita. Allo stesso modo si incorrerebbe in un errore di natura macroscopica se non si considerassero altre contraddizioni. Si pensi ad esempio, prime fra tutte, a quelle relative ai rischi ambientali causate proprio da quel sistema capitalistico e dalle sue crisi - di natura endogena - che l’ideologia liberale continua aggressivamente a difendere, ricorrendo alla guerra preventiva e permanente. La guerra, a sua volta, non fa che peggiorare drasticamente la salute del nostro pianeta, innescando così un circolo vizioso catastrofico. Ma l’ideologia qui oggetto di critica, coprendosi gli occhi e auto-illudendosi e auto-convincendosi del contrario (espressione, questa, della sua cosiddetta “falsa coscienza”e di una tendenza alla rimozione che la caratterizza da sempre), nega l’esistenza di questi “problemi” o, riconoscendoli ma limitandone la portata, non vuole prendere minimamente in considerazione che essi non si possono risolvere se non alla radice: mettendo cioè in discussione e sovvertendo l’intero sistema che li produce e quindi, in ultima analisi, i rapporti di potere e di classe esistenti.
Leonardo Pegoraro


Bibliografia:

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[1] Pasquino è professore di Scienza politica nell’ Università di Bologna. Nel corso del saggio ho voluto, fra i tanti che si sarebbero potuti prestare a questo compito, fare riferimento a questo autore in quanto, a mio avviso, rappresenta appieno il pensiero liberale. Date le sue posizioni possiamo considerarlo un cosiddetto liberale di “sinistra”. Sarà proprio il suo “progressismo” che ci consentirà di evidenziare diverse contraddizioni (che io credo essere insanabili se non cambiando radicalmente il sistema capitalistico che le origina): spesso farò in modo che siano le sue stesse parole a mettere in luce alcuni “difetti” e “inconvenienti” presenti negli USA (e qui sta il suo essere “progressista”), che pure continua a considerare una grande democrazia (e qui sta il suo essere liberale).
[2] Pasquino (2004), p. 130.
[3] Ibidem.
[4] Nelle elezioni presidenziali va a votare meno del 50 per cento degli aventi diritto, quindi il presidente USA rappresenta a malapena un americano su quattro. Nelle altre consultazioni le cose vanno molto peggio: i votanti nelle elezioni dei singoli Stati sono il 35-40 per cento, in quelle di contea e municipali addirittura il 25-30 per cento. Sissignori, nel santuario della democrazia ci sono anche “maggioranze” che rappresentano meno del 13 per cento della popolazione.
[5] Losurdo (1997) e Adams (1965), p. 121.
[6] Losurdo (2005), p.113.
[7] Diamond, cit. in Pasquino (2004), p. 312-313.
[8] Ro.Re (2006).
[9] Mandel (1969) p. 76.
[10] Kupchan, cit. in Azzarà (2006).
[11] D’agnolo Vallan (2007).
[12] Cfr. A. Lucarelli (2000), p. 219 ss.
[13] Cfr. A. M. Schlesinger (1973).
[14] Pasquino (2003), p.118.
[15] Duverger (1961), p.267.
[16] Cfr. Katz, Mair (1995) pp. 5-28.
[17] Jones, Williams, cit. in Caciagli, Di Virgilio, p.118 .
[18] Caciagli, Di Virgilio, p.119.
[19] Huntington, cit. in O. Boiral (2003).
[20] Pasquino (2004), p. 321.
[21] Hegel (1997), p. 444-445
[22] ibidem
[23] Canfora (2002) p. 36.
[24] Gramsci (1974) p. 111.
[25] Losurdo (2005) p. 333 e Losurdo (2002).
[26] Lowy, Varikas (2007); vedi anche Losurdo (2007) p. 115-118.
[27] Losurdo (2007) p. 105.
[28] Bush, cit. in Losurdo (2000) e in Losurdo (2007) p. 106.
[29] Ford, cit. in Lowy (2007).
Anche le parole di Blair si muovono sulla stessa lunghezza d’onda: “Questo nostro paese è benedetto, gli inglesi sono speciali. Il mondo lo sa e anche noi, nel nostro intimo lo sappiamo. Questa è la più grande nazione sulla terra ed è stato un onore servirla.” (Corsivo mio; Tony Blair, dal discorso di congedo dalla carica di Primo ministro, Trimdon Labour, 10 Maggio 2007).
[30] Hegel, cit. in Losurdo (2005) p. 29.



Vita di Lenin*


Vladimir Il’i¹ Ul’ianov, noto con lo pseudonimo di Lenin [lién’in], nasce a Simbirsk nel 1870, e muore a Gorki, dove era ricoverato nei pressi di Mosca, nel 1924. Figlio di un ispettore scolastico, la vicenda del fratello Aleksej – arrestato e impiccato nel maggio 1887 per avere preso parte alla preparazione di un attentato ad Alessandro III – segna la sua giovinezza in maniera indelebile, portandolo anche a discostarsi dalla pratica dei populisti (narodniki), i quali intendevano sollevare i contadini compiendo atti terroristici esemplari che assurgessero a livello di monito ed emblema, pratica rivoluzionaria che già in questi anni egli non tarderà a rigettare come erronea. Lo stesso anno viene espulso, perché considerato sovversivo radicale, dall’università di Kazan’ – solo nel 1891, a Pietroburgo, si laureerà in giurisprudenza – e dal 1889 al 1893 visse a Samara, esercitando l’attività forense a favore dei ceti meno abbienti, per poi spostarsi stabilmente a Pietroburgo. In questi anni fecondi di studii, attraverso ampie letture di economia e politica, maturava la sua adesione al marxismo, iniziando anche a delineare la sua ­- ancora embrionale – concezione del processo rivoluzionario, mediata da una metodica analisi del sistema economico russo; di questo periodo è «Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici?» [1894].
Durante un viaggio in Svizzera conobbe Plechanov[I], instaurando con lui un importante sodalizio che durerà fino agli anni del periodico Iskra, ma, come vedremo, tenderà ad estinguersi per incongruenze ideologiche.
Nell’autunno del 1895 fondò a Pietroburgo il circolo “Emancipazione del lavoro” (Osvoboždenie truda), per l’unificazione dei gruppi rivoluzionarii, ma già nel dicembre venne arrestato e scontò quattordici mesi di carcere e tre anni di esilio in Siberia, dove sposò Nadežda Krupskaja – un’altra attivista anch’essa in esilio - e si concentrò negli studii di economia e storia, che confluirono in «Lo sviluppo del capitalismo in Russia» [1899], il quale analizza il singolare conglomerato economico-sociale russo, non senza un vivo interesse per lo strato agrario, individuando ad hoc quelle che per lui sono le strategie rivoluzionarie più consone nella fattispecie.
Nel 1900, di nuovo costretto all’esilio, si trasferì a Monaco di Baviera, poi a Zurigo, dove raggiunse Plechanov e Martov con i quali fondò il periodico Iskra (“scintilla”), auspicando una maggior diffusione del marxismo in Russia, congiunto con un rafforzamento del Partito operaio. Presto però emersero, all’interno degli stessi socialisti, contrasti sempre più rilevanti, di carattere e organizzativo e strategico, che si palesarono nel congresso del 1903 ( Bruxelles-Londra ), in cui parve perspicuo che si fosse andata formando una sorta di diade per nulla evanescente: da un lato i bolscevichi (lett. “maggioritarii” –bolscinstvo-, come peraltro risultarono), i quali - guidati dallo stesso L. - sostenevano la necessità di un partito centralizzato composto da rivoluzionarii “di professione”, e dall’altro i menscevichi ( “minoritarii” da menscinstvo), ovvero B.Aksel’rod, V.Zasulič, L.Martov, L.D.Trockij[II] et cetera.
In realtà l’oggetto della contesa era il ruolo della classe operaia nella rivoluzione: mentre per i primi essa avrebbe dovuto svolgere un ruolo protagonistico, da cui anche la necessità di un partito svincolato dall’influenza e dagli impulsi borghesi od anche piccolo-borghesi, per i menscevichi era di primaria importanza contribuire ad una rivoluzione maggiormente democratico-borghese, declassando la classe operaia ad un ben più modesto deuteragonismo.
In quegli anni i più importanti scritti di L. vertevano precipuamente attorno a questi problemi: «Che fare?»[1902], «Un passo avanti, due indietro»[1904], «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica»[1905].
A rafforzare le posizioni propugnate da L. venne la rivoluzione del 1905, nella quale nacquero i primi soviet (“consiglii”), la quale mise bene in luce la notevole importanza del proletariato in un processo di radicale rinnovamento, mostrando altresì la profonda necessità di una salda, monolitica organizzazione rivoluzionaria.
Al congresso dell’Internazionale del 1907, Lenin e R.Luxemburg presentarono – e di fatto fecero approvare – una sorta di strategia risolutiva degli sforzi bellici, per cui, solo qualora il proletariato non fosse riuscito ad eludere il conflitto, questo sarebbe dovuto venir trasformato in lotta rivoluzionaria contro il capitalismo.
Attorno alle questioni teoretiche, Lenin in questi anni si impegna nell’approfondimento di alcuni gangli concettuali dell’ideologia marxista, che gli varrà encomiabili elucubrazioni, come «Materialismo ed empiriocriticismo»[1909], nelle quali, anche in dissidio con i compagni di partito, egli è teso a sottolineare e valorizzare l’autosufficienza teorica del marxismo e la sua viscerale inconciliabilità con ogni alterità, con ogni forma di altro idealismo.

Allo scoppio del conflitto mondiale, denunciò il fallimento dell’Internazionale, e stigmatizzò aspramente i partiti socialisti europei, i quali avevano proditoriamente sostenuto lo sforzo bellico, tradendo, per l’appunto, lo spirito dell’Internazionale.
Contribuì in maniera determinante all’organizzazione di alcune conferenze, come Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916), in cui animosamente sosteneva l’ineluttabile necessità di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione e l’edificazione di un nuovo internazionalismo socialista. In quegli stessi anni scrisse «Imperialismo, fase suprema del capitalismo»[1916]: analisi della spartizione del pianeta e della situazione coeva, culminata nello scontro bellico; spartizione operata dalle grandi potenze unicamente sotto l’impulso del capitale finanziario.
Scoppiata la Rivoluzione di febbraio, raggiunse Pietrogrado – poi che si trovava a Ginevra – solo nell’aprile 1917, quando lo zar era stato deposto già da un mese, accompagnato dai suoi più stretti collaboratori in un treno speciale autorizzato dal governo teutonico ad attraversare la Germania; come obiettivo di primaria importanza impose l’abbattimento del governo Kerenskij, governo provvisorio borghese fermamente risoluto a continuare la guerra: è pleonastico notare che una collaborazione con tale linea politica fu acremente ripudiata da Lenin. Quest’ultimo propose («tesi d’aprile») anche di rinominare l’organizzazione Partito comunista (bolscevico) russo.
Per sfuggire all’arresto è costretto a rifugiarsi in Finalndia, e in agosto scrisse «Stato e rivoluzione»[1917], in cui riprendeva, non senza ulteriori sviluppi, le idee di Marx sulla dittatura del proletariato e sulla trasformazione rivoluzionaria dello stato nell’autogoverno dei produttori; dalla clandestinità preparò inoltre la seconda fase della rivoluzione ponendo gli obiettivi della pace immediata, della distribuzione della terra ai contadini e del passaggio del potere ai soviet.

Battaglione di donne a Pietrogrado
Per ribadire il principio della parità dei sessi nella gestione del potere, il soviet di Pietrogrado costituì un battaglione femminile che svolse un ruolo attivo nella rivoluzione d'ottobre.

Non sarà inopportuno ricordare che nel 1918, a Mosca, Lenin statalizza le due grandiose collezioni di Sčukin e Morozov, composte di copiosi dipinti impressionisti, postimpressionisti, fauve e cubisti, fondando il Museo d’arte occidentale: questo fu il primo museo della storia interamente ed esclusivamente dedicato all’arte contemporanea.

Capo del governo dei commissarii del popolo, massima carica governativa, dopo l’insurrezione del 7 novembre 1917 – il 24 ottobre, secondo il calendario giuliano russo -, si vide costretto ad accettare le gravissime ed onerose clausole imposte dalla Germania per la firma del trattato di pace (Brest-Litovsk, 3 marzo 1918), non senza uno scontro con un’opposizione interna al partito favorevole ad una continuazione della guerra (Trockij e Bucharin).
Mentre il paese, già stremato dallo sforzo bellico, sprofondava in una cruenta guerra civile (1918-1921), lo stesso Lenin fu gravemente ferito in un attentato alla sua persona da parte di una socialista rivoluzionaria.

L. diede un ingente impulso alla fondazione nonché allo sviluppo dell’Internazionale comunista (1919), che separò definitivamente i socialisti dai comunisti e suscitò anche l’ondata di consensi e simpatie, se non entusiasmo, fomentata dall’esperienza della rivoluzione sovietica; con ciò la posizione del governo sovietico divenne più isolata, dunque più temibile e pericolosa, vista dall’esterno.
Del resto L. credeva fermamente che il futuro della rivoluzione fosse riposto in un sua futura espansione, negli sviluppi internazionali ch’essa avrebbe potuto avere, dato che il permanere di una situazione di sostanziale “accerchiamento” rendeva pressoché impossibile una più vasta, e reale edificazione socialista.
Sono di questi anni varii scritti di politica internazionale in cui apriva una polemica con il socialismo riformista o criticava un certo paludato settarismo di alcuni partiti dell’Internazionale ( «La rivoluzione del proletariato e il rinnegato Kautsky»[1918], «Estremismo malattia infantile del comunismo»[1920]).
Nel marzo del 1921 tentò di avviare la nuova ricostruzione del paese lanciando la “nuova politica economica” (NEP), parziale e provvisoria ripresa dell’iniziativa privata nell’agricoltura e nel commercio.

Colpito da apoplessia nel maggio 1922, dal soggiorno di cura a Gorki continuò indefessamente a seguire gli sviluppi dello stato sovietico, impegnando il suo ormai enorme prestigio soprattutto nella denuncia e nella lotta all’incipiente burocratizzazione dello stato, nonché del partito. Al dicembre 1922 risale il celebre “testamento” in cui caldeggiava una pronta rimozione di Josif Stalin[III] dalla carica di segretario generale del partito: documento travisato e strumentalizzato impunemente, in quanto, in primo luogo, non fu concepito come testo di dominio pubblico, anzi L. ne auspicava la segretezza; inoltre gli antefatti, che qui non possiamo illustrare per ragioni di spazio, fecerò sì che L. – non presente, ma informato da terzi sul metodo di Stalin – di primo acchito fosse portato a giudicare con perplessità il suo successore, ma senza che questo risultasse più che un mero ed estemporaneo malinteso, da entrambe le parti, in quanto Stalin si occuperà in prima persona di rendere grandi onori funerei a Lenin.

Nel 1923 perse completamente l’uso della parola, sancendo la fine della sua carriera politica.
Dall’ultima letifera paralisi non si sarebbe più ripreso.



Nicola Serafini


Bibliografia essenziale

Gli scritti di Lenin sono raccolti in Sočinenija (“Opere”), V° ed., 55 voll., 1958-1965; la trad. it. – 45 voll., 1954-1970, si basa sulla IV° ed. russa.

Per il lettore interessato ad eventuali approfondimenti, possono indicarsi essenzialmente:
Carr, E., Storia della Russia sovietica, Einaudi, Torino 1964-1984.
Deutscher, I., Lenin. Frammento di una vita, Laterza, Bari 1970.
Hill, C., Lenin e la rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1972.
Lewin, M., L'ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969.
Lukács, G., Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi, Torino 1970.
Meldolesi, L., La teoria economica di Lenin, Laterza, Bari 1981.
Pearson, M., Il treno piombato, Sperling &Kupfer, Milano 1976.
Salomoni, A., Lenin e la rivoluzione russa, Giunti, Firenze 1993.
Ulam, A.B., Lenin e il suo tempo, Vallecchi, Firenze 1967.









* In quella che vuole essere una biografia divulgativa, l’autore non può discettare diffusamente di ogni avvenimento, né dell’ideologia stessa, lasciando questa piacevole ingerenza a chi meglio di lui ne sia in grado.
[I] Georgij P. (Gudalovka, Tambov 1856 - Terioki, Finlandia 1918), filosofo e rivoluzionario russo, considerato uno dei maggiori teorici russi del marxismo. Nel 1904 lasciò il comitato esecutivo dell'Internazionale e nel corso della prima guerra mondiale condannò la Rivoluzione d'ottobre come un atto prematuro e voluto solo da pochi. A lui si deve la traduzione in russo di molte opere di Marx e di Engels, fra cui quella del Manifesto, del 1882.
[II] Pseudonimo di Lev Davidovič Bronštein (Janovka, Ucraina 1879 - Città di Messico 1940). Membro dal 1903 del Partito operaio socialdemocratico russo, dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 Trockij fu costretto a un lungo esilio. Rientrato in Russia nel 1917 per unirsi alla rivoluzione, nel 1918 fondò l'Armata Rossa, che guidò alla vittoria nello scontro contro le Armate Bianche. Nella lotta per la successione a Lenin venne sconfitto dalla fazione capeggiata da Stalin, contro il quale ingaggiò una vana battaglia. Deportato ad Almaty nel 1928, venne espulso dall'URSS nel 1929. Nel 1938 fondò la Quarta Internazionale, dove si raccolsero molti comunisti antistalinisti. T. fu ucciso nel 1940, in Messico, da un sicario della polizia politica di Stalin.
[III] Pseudonimo di Josif Vissarionovič Džugašvili (Gori, Georgia 1879 - Mosca 1953), uomo politico sovietico, capo dello stato (1924-1953), la cui storia personale si identificò per oltre trent'anni con quella dell'URSS. Con il suo peso politico e militare, fece dell'Unione Sovietica la seconda potenza mondiale; la sua azione e la sua influenza furono determinanti per la diffusione del modello comunista e impressero il loro segno nell'Europa postbellica.


Gramsci contra Trotski


In seguito alla destalinizzazione avvenuta nel '56 per mano di Krusciov un'ondata di anti-stalinismo e di riflusso trotskista ha iniziato a diffondersi nei gruppi comunisti di tutto il mondo.
Ravvisando così in Stalin un vero e proprio traditore del marxismo e del progetto di Lenin, viene viceversa individuato in Trotski il solo e degno successore della Rivoluzione bolscevica, la quale ultima, lungi dalle scelte staliniste di rinchiudersi all'interno del proprio paese, avrebbe dovuto instradarsi verso la direzione della Rivoluzione permanente.
E tuttavia, vi è un fatto significativo da notare, e del quale i vari trotskisti si rifiutano spesso di tenere conto o ignorano del tutto: Lenin aveva già indicato nei suoi ultimi scritti la strada che il socialismo avrebbe dovuto intraprendere e non era affatto quella teorizzata da Trotski.
Certo, se inizialmente l'intento leniniano poteva essere stato quello della conflagrazione impetuosa del socialismo e della sua improvvisa espansione a livello mondiale, con i successivi sviluppi della scena storica ed una valutazione più minuziosa delle condizioni oggettive Lenin si rese conto che quello che rimaneva da fare non era altro che l'adoperarsi per il raccoglimento delle energie necessarie in vista della costruzione di un forte paese socialista capace di affrontare i martellanti tentativi di sovverchiamento da parte degli altri paesi capitalistici e imperialistici. È questo il senso profondo dello scritto del 1923 "Meglio meno ma meglio":


Bisogna imporsi la regola: meglio pochi, ma buoni. Bisogna imporsi la regola: meglio avere un buon materiale umano fra due o anche fra tre anni piuttosto che lavorare affrettatamente, senza alcuna speranza di ottenerlo.
So che sarà difficile attenersi a questa regola e applicarla alla nostra realtà. So che la regola opposta si farà strada fra migliaia di fessure. So che sarà necessario resistere energicamente, che bisognerà dimostrare una diabolica tenacia e che il lavoro in questo campo, almeno per i primi anni, sarà diabolicamente ingrato; tuttavia sono convinto che solo mediante questo lavoro potremo raggiungere il nostro scopo e che solo dopo averlo raggiunto creeremo una repubblica veramente degna di essere chiamata sovietica, socialista, ecc. ecc.[1]


Ad affermare la stessa controtendenza di Trotski non tanto verso Stalin, quanto bensì verso lo stesso Lenin, e la linea di continuità che sussiste invece tra Stalin e quest'ultimo è Gramsci, il quale così si esprime intorno alla teoria trotskista:


A proposito della parola d'ordine "giacobina" formulata nel '48-49 [rivoluzione permanente] è da studiarne la complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein [Helphand Trotzkij] si manifestò inerte e inefficace nel 1905, e in seguito: era diventata una cosa astratta da gabinetto scientifico. La corrente [leninista] che la avversò in quella sua manifestazione letteraria, invece senza impiegarla "di proposito", la applicò di fatto in una forma aderente alla storia attuale, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturente da tutti i pori della determinata società che occorreva trasformare, come alleanza di due gruppi sociali [proletariato e contadini] con l'egemonia del gruppo urbano. Nell'un caso si ebbe il temperamento giacobino senza un contenuto politico adeguato; nel secondo, temperamento e contenuto "giacobino" secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un'etichetta letteraria e intellettualistica.[2]



Dunque, considerando la linea intrapresa da Lenin e da Stalin una decisione confacente alla situazione storica oggettiva nella quale ci si trovava, quello di Trotski è, ad avviso di Gramsci, soltanto un cicalecciare intorno a teorie astratte e prescindenti dalla loro concreta attuabilità.
Denominando Trotski come «il teorico politico dell'attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatte», Gramsci ribadisce con forza l'enorme distanza che intercorre tra il pensatore della rivoluzione permanente e la ben più elevata grandezza di Lenin:


È da vedere se la famosa teoria di Bronstein [Trotski] sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare l'osservazione del generale dei cosacchi Krasnov), in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non possono diventare "trincea o fortezza". In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un "occidentalista", era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici [Lenin] era profondamente nazionale e profondamente europeo.[3]


Tutta la concezione gramsciana intorno alla tematica della guerra di posizione di contro alla guerra di movimento, e ruotante intorno alla tematica dell'egemonia, «risponde all'esigenza di definire i caratteri storici nuovi della lotta politica nel mondo, dopo la grande guerra e la Rivoluzione d'ottobre».[4]
E le due categorie che Gramsci utilizza, parteggiando calorosamente per la categoria di guerra di posizione, più adatta agli sviluppi storici dell'occidente, stanno a simboleggiare rispettivamente la tattica del fronte unito di Lenin e la teoria della rivoluzione permanente di Trotski.
Come che sia la teoria di Lenin risulta essere per Gramsci ad un livello di comprensione molto più elevato rispetto alla concezione di Trotski la quale è fondata solo ed esclusivamente su chimerici favoleggiamenti:

Bronstein [Trotski] nelle sue memorie ricorda che gli fu detto che la sua teoria si era dimostrata buona dopo… quindici anni […]. In realtà la sua teoria, come tale, non era buona né quindici anni prima né quindici anni dopo: come avviene agli ostinati, di cui parla il Guicciardini, egli indovinò all'ingrosso, cioè ebbe ragione nella previsione pratica più generale; come dire che si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e quando lo diventa a vent'anni si dice "l'avevo indovinato" non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre. Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente.[5]

La grandezza teorica e politica di Lenin risiede per Gramsci nella grande capacità del dirigente bolscevico di non estraniarsi «dalla realtà del suo paese arretrato» e nell'aver «saputo mantenere salde e profonde radici nella realtà nazionale da cui proveniva». Come che sia, «la grandezza di Lenin è per l'appunto nell'aver superato la dicotomia occidentalismo/slavofilia e nell'aver superato e aiutato a superare analoghe dicotomie in riferimento ai paesi e ai popoli da lui chiamati a spezzare il giogo coloniale. Qualcosa di analogo si può dire per tutti i grandi rivoluzionari del nostro secolo: Ho Chi Min, Mao, Castro hanno conseguito la vittoria nella misura in cui sono riusciti a "vietnaminizzare", a "sinizzare", a "cubanizzare" il loro marxismo, ad unire in esso Oriente e Occidente, caratteristiche generali e peculiarità nazionale».[6]
L'accusa dei trotskisti di nazionalismo sigla di fatto solamente l'incapacità di comprendere e accogliere l'acutezza e dialetticità delle osservazioni e l'ancoraggio sistematico a vedute obsolete e
meccanicistiche. Dal vertice della sua comprensione dialettica Gramsci sottolinea nei Quaderni «il fatto che, per conferire concretezza al suo "internazionalismo", un comunista» deve «saper essere "profondamente nazionale" … Non si tratta di uno spunto isolato bensì di un tema centrale nella riflessione di Gramsci. Alle spalle agisce forse la lezione di Cuoco che fa risalire la sconfitta della rivoluzione napoletana anche alla sua incapacità di operare la saldatura, verificatasi in Francia, tra causa della rivoluzione e causa della nazione. Questa mancata saldatura segna il destino della rivoluzione passiva; e al fallimento è destinata secondo Gramsci ogni rivoluzione che non sia capace di radicarsi nella nazione e divenire nazional-popolare.
Non c'è assolutamente spazio in questa visione per la teoria o per la tentazione dell'esportazione della rivoluzione. Di qui la dura critica rivolta a Trotski di "napoleonismo anacronistico e antinaturale"».[7]
In questo senso Stalin incarna per Gramsci molto meglio rispetto a Trotski la comprensione della complessità delle contraddizioni insite nello svolgimento del processo rivoluzionario, nonché il tentativo di sradicamento del dogmatismo presente nelle vedute dei marxisti meccanicisti e l'acume intellettivo di vedere entro il suolo nazionale il punto di partenza per l'internazionalismo:

Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo più recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto "nazionale" è il risultato di una combinazione "originale" unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo ma il punto di partenza è "nazionale" ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre per tanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare che il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici [Trotski] e Bessarione [Stalin] come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l'internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. […]
Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali), e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolarismi e municipalisti (contadini) deve "nazionalizzarsi" in un certo senso e questo senso non è d'altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali ( di gruppi di nazioni) possono essere vari. […]
Che i concetti non-nazionali (cioè non riferibili ad ogni singolo paese) siano sbagliati, si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all'inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase nessuno credeva di dover incominciare cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato nell'attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di "napoleonismo" anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma). Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono maschere della teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.[8]



È evidente la pericolosità della divulgazione della teoria trotskista che Gramsci paventa in carcere. Come racconta «uno dei più fidati compagni di carcere che gli fu vicino in cella negli ultimi mesi a Turi, Gramsci, in relazione agli avvenimenti internazionali» del 1933 «riteneva che "una guerra avrebbe potuto scoppiare a breve scadenza": ed "espresse il parere e la speranza che l'Unione Sovietica dovesse a ogni costo tenersi fuori: se l'URSS fosse stata trascinata in un conflitto e ne fosse uscita perdente, sarebbe sparito dalla faccia della terra il primo e unico Stato socialista nel mondo, e con esso le speranze di tutti i proletari, e le conseguenze sarebbero state tragiche, perché si sarebbe scatenata in tutti gli Stati, un'ondata reazionaria senza precedenti, e soprattutto non si sarebbe riparlato per cento anni di un altro Stato socialista». Da qui dunque l'importanza
fondamentale di creare prima di tutto un forte consolidamento dello Stato scaturito dall'ottobre del '17, e concentrare le energie verso la propria difesa nazionale, dalla cui sopravvivenza dipendeva il futuro degli operai di tutto il mondo e l'eventuale nascita e costruzione di altri paesi socialisti. Superficiale e avventata, si rivelava dunque essere la teoria di Trotski della rivoluzione permanente, e l'accusa da questi mossa a Stalin di «"nazionalismo", cioè la convinzione della possibilità della costruzione del socialismo anche in un paese solo, altro non era che lo sforzo per radicarsi nel contesto nazionale, condizione indispensabile per far vivere la prospettiva internazionalista». Il sedicente internazionalismo trotskista viceversa, «non era che la ripetizione astratta di vecchie formule, una versione ammodernata del vecchio meccanicismo».[9]
In questo senso, «più ancora della critica immediatamente politica, riguardante l'analisi della situazione oggettiva e dei reali rapporti di forza, è importante la critica di carattere filosofico, la quale individua» appunto «nella teoria della "rivoluzione permanente" una "forma moderna del vecchio meccanicismo"».[10]
In effetti, «negare la possibilità del socialismo in un paese solo significa continuare a far discendere meccanicamente la maturità politica dalla "maturità economica" del "collettivismo", significa continuare ad essere prigionieri di quella ideologia in base alla quale i campioni della Seconda Internazionale, agitando Il capitale, negavano la legittimità della Rivoluzione d'Ottobre. In questo senso, per Gramsci, "nella ideologia e nella pratica" del trotskismo "rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo … Proprio perché la rivoluzione è il risultato dell'accumularsi e intrecciarsi di contraddizioni diverse, è possibile analizzarla, promuoverla e dirigerla solo a partire da "un'accurata ricognizione di carattere nazionale"».[11]
D'altro canto, oltre a poter desumere il meccanicismo di Trotski dai connotati delle sue teorie e scelte politiche, la sua concezione retrograda è altresì ricavabile da valutazioni di carattere esplicitamente filosofico, come ad esempio nell'insinuazioni che egli muove contro il Labriola; è sempre Gramsci a farlo notare:

È stupefacente che nelle sue Memorie, Leone Bronstein [Trotski] parli di "dilettantismo" del Labriola. Non si capisce questo giudizio (a meno non significasse il distacco tra teoria e pratica nella persona del Labriola, ciò che non pare il caso) se non come un riflesso inconsapevole della pedanteria pseudoscientifica del gruppo intellettuale tedesco che ebbe tanta influenza in Russia. In realtà il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi.[12]


Si può evincere da quanto visto che l'ostilità di Gramsci verso Trotski va ben oltre i passi in cui questi viene esplicitamente menzionato. Si può facilmente affermare, che tutta la polemica dei Quaderni contro la tendenza materialistica meccanicistica di Bucharin che non riesce a penetrare la portata maestosa della filosofia della praxis, costituisca retrospettivamente un attacco diretto anche a Trotski, del quale d'altronde Bucharin era amico e con il quale, data la convergenza di vedute, vi aveva persino scritto un libro insieme (Novyi Mir - Nuovo Mondo). Certo, vero è che Bucharin avverserà in certo qual modo Trotski quando Stalin salirà al potere, ma con tutta probabilità egli lo fece per ragioni molto più pratiche che teoriche o ideologico-politiche; fino ad allora infatti le loro vedute erano pressoché andate sempre di pari passo, come, per fare un clamoroso esempio, l'opposizione sfrenata a Lenin durante le decisioni per la pace di Brest Litovsk. Vale la pena di ricordare che cosa avvenne quel terribile e gelido inverno del 1918, fatti che tendono ad essere insabbiati e che i trotskisti ricordano malvolentieri:

… Continuare la guerra in quelle condizioni voleva dire mettere in pericolo l'esistenza della repubblica sovietica di recente formatasi. La classe operaia e i contadini si videro costretti ad accettare dure condizioni di pace, a retrocedere di fronte al predone che in quel momento era il più pericoloso, l'imperialismo tedesco, se volevano ottenere una tregua, consolidare il potere sovietico e creare un esercito nuovo, l'Esercito Rosso, che fosse capace di difendere il paese dall'aggressore. Tutti i controrivoluzionari, dai mensceviche e socialisti-rivoluzionari alle più accanite guardie bianche, scatenarono un'agitazione furibonda contro la firma del trattato di pace. Le loro intenzioni erano chiare: essi volevano far fallire le trattative di pace, provocare un offensiva tedesca ed esporre ai suoi colpi il potere sovietico non ancora consolidato, mettere in pericolo le conquiste degli operai e dei contadini.
I loro alleati in quella infame bisogna, erano Trotski e il tirapiedi Bukharin, il quale, insieme con Radek e Piatokov, si trovava a capo di un gruppo ostile al partito, che per smascherarsi si chiamava gruppo dei "comunisti di sinistra". Trotski e il gruppo dei "comunisti di sinistra" mossero, all'interno del partito, una lotta accanita contro Lenin, per la continuazione della guerra. Costoro facevano apertamente il gioco degli imperialisti tedeschi e dei controrivoluzionari dell'interni, giacché volevano esporre la giovane repubblica sovietica, che non aveva ancora un esercito, ai colpi dell'imperialismo tedesco.
Politica di provocazione mascherata abilmente da frasi di sinistra.
Il 10 febbraio 1918, le trattative di pace a Brest-Litovsk furono interrotte. Sebbene Lenin e Stalin, a nome del comitato centrale del partito, avessero insistito perché la pace fosse conclusa, Trotski, presidente della delegazione sovietica a Brest-Litovsk, infranse, a tradimento le direttive esplicite del partito bolscevico. Egli dichiarò che la Repubblica sovietica si rifiutava di firmare la pace alle condizioni proposte dalla Germania e, al tempo stesso, comunicò ai tedeschi che la Repubblica sovietica, non avrebbe continuato l guerra e avrebbe continuato a smobilitare l'esercito.
Atto mostruoso. Gli imperialisti tedeschi non potevano sperare di più da un traditore degli interessi del popolo sovietico! La Germania ruppe l'armistizio e riprese l'offensiva. I resti del nostro vecchio esercito cedettero alla pressione delle truppe tedesche e si dettero alla fuga. I tedeschi avanzarono rapidamente, occupando un immenso territorio e minacciando Pietrogrado. L'imperialismo tedesco, dopo essere penetrato in terra sovietica, si proponeva di rovesciare il potere sovietico e di ridurre la nostra patria allo stato di colonia. […]
Lenin, Stalin e Sverdlov dovettero sostenere una delle più accanite lotte nel Comitato Centrale contro Trotski, Bukharin e gli altri trotskisti per ottenere un voto in favore della pace. Lenin indicò che Bukharin e Trotski "avevano di fatto aiutato gli imperialisti tedeschi e ostacolato il progresso e lo sviluppo della rivoluzione in Germania". … Il 23 febbraio, il Comitato Centrale decise di accettare le condizioni del comando tedesco e di firmare il trattato di pace. Il tradimento di Trotski e Bukharin era costato caro alla Repubblica sovietica: la Lettonia, l'Estonia, senza parlare ormai della Polonia, passavano alla Germania: l'Ucraina era staccata dalla Repubblica sovietica per farla divenire uno Stato vassallo della Germania. La Repubblica sovietica si impegnava a pagare ai tedeschi un'indennità di guerra.[…] L'Ufficio del partito della regione di Mosca, di cui si erano per il momento impadroniti i "comunisti di sinistra" … approvò una risoluzione scissionistica e di sfiducia verso il comitato centrale e dichiarò che considerava "quasi impossibile evitare la scissione a breve scadenza nel partito". Essi giunsero persino, in quella risoluzione, a prendere una decisione antisovietica: "Nell'interesse della rivoluzione internazionale - scrivevano - noi riteniamo utile prendere in considerazione l'eventuale soppressione del potere sovietico, che diventa ora puramente formale".
Lenin qualificò quella risoluzione come "strana e mostruosa".
In quel momento, non era ancora chiara per il partito l vera causa della condotta ostile al partito di Trotski e dei "comunisti di sinistra". Ma, come è risultato dal recente processo (all'inizio del 1938) dell'organizzazione antisovietica nota con il nome di "blocco dei destri e dei trotskisti", Bukharin e il gruppo dei "comunisti di sinistra" da lui diretto, tramavano allora, insieme con Trotski e con i socialisti rivoluzionari "di sinistra" un complotto contro il governo sovietico. È accertato che Bukharin, Trotski e i loro complici si ponevano come scopo di sabotare il trattato di pace di Brest-Litovsk, di fare arrestare V. I. Lenin, I. V. Stalin, I. M. Sverdlov, di assassinarli e di formare un nuovo governo composto di bukhariniani, di trotskisti e di socialisti-rivoluzionari "di sinistra".
Mentre organizzava un complotto controrivoluzionario, il gruppo di "comunisti di sinistra", sostenuto da Trotski, attaccava, in modo aperto, il partito bolscevico, nello scopo di scinderlo e di disgregarne le file. Ma, in quel difficile momento, il partito si strinse intorno a Lenin, Stalin e Sverdlov e sostenne il comitato centrale tanto nella questione della pace che in tutte le altre questioni. […]
A proposito della pace di Brest Litovsk, Lenin disse al congresso: "… la crisi penosa che attraversa il nostro partito, in seguito al fatto che un'opposizione di sinistra si è formata nel suo seno, rappresenta una delle crisi più gravi che abbia vissute la rivoluzione russa".[13]


Scusandoci per la lunghezza della citazione, possiamo tuttavia riallacciarsi ad essa per mostrare la condotta controrivoluzionaria tanto di Bukharin quanto di Trotski. In questo senso, se Marx giudicava le posizioni di Feuerbach un retaggio dell'ideologia borghese che gli impediva di elevarsi alla comprensione della dialettica rivoluzionaria e dell'intero processo storico, analogamente, il meccanicismo di Trotski e Bucharin, le loro vedute ancestrali ed anti-dialettiche, li hanno spinti, forse del tutto inconsapevolmente, verso scelte politiche giovanti a null'altri che agli interessi
imperialistici. Gramsci riesce ad analizzare tutto questo prendendovi le distanze e caldeggiando,di volta in volta, il presentarsi del nuovo, in contrapposizione allo stantio conservatore che si adopera come può per ostacolare la propria caduta. Egli ha saputo individuare, seppur da dentro una prigione, le contraddizioni oggettive che si dispiegavano via via sul panorama storico, analizzando sempre lo sviluppo dei fatti con sguardo attento e anti-dogmatico, ed esprimendo giudizi critici verso coloro che come Trotski o Bucharin, per inflessibilità logica o cecità ideologica, non riuscivano a penetrare all'interno della complessità del processo rivoluzionario, e rimanevano invece ancorati a vecchi principi creduti metastorici, e ignorando perciò l'adattabilità di questi alle nuove circostanze venutesi a creare.


Emiliano Alessandroni


Bibliografia:


- A.A.V.V.: “Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo” , l’Unità 1987

- A.A.V.V.: "Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell' U.R.S.S.", Società Editrice "L'Unità" 1944

- Ruggiero Giacomini: "Gramsci detenuto, il Pci e la Russa sovietica" La Città del Sole 2003


- Antonio Gramsci: "Quaderni del carcere" a cura di Valentino Gerratana, Einaudi 2001


- Lenin: "Opere scelte" Editori Riuniti 1968


- Domenico Losurdo: "Antonio Gramsci, dal liberalismo al comunismo critico" 1997 Gamberetti Editrice


[1] Lenin, 1968, p. 1817
[2] Gramsci, 2001, 54
[3] Gramsci, 2001, p. 866
[4] Giuseppe Vacca: "Guerra di posizione e guerra di movimento" in AA.VV. 1987, p. 101
[5] Gramsci, 2001, p. 866
[6] Losurdo, 1997, p. 242
[7] Losurdo, 1997, p. 204
[8] Gramsci, 2001, pp. 1729-1730
[9] Giacomini, 2003, p. 8
[10] Losurdo, 1997, p. 142
[11] Losurdo, 1997, pp. 142-143
[12] Gramsci, 2001, p. 309
[13] AA.VV., 1944, pp. 271-272-273-274-275




IUSTITIA SOROR CRUORIS*

Nel cinquantottesimo novembre del secolo ventesimo avvennero alcuni casi efferati, non furono i primi e non furono gli ultimi, ma non per questo meritano di essere taciuti.

In questa sede riporteremo una testimonianza un poco cruda, cui chi scrive può aggiungere poco altro, fuor della propria indignazione nell’appurare fatti spesso passati sotto silenzio; in ciò non vi è nulla di extraordinario: fatti anteriori occultati, fatti posteriori occultati; fatti anteriori resi roboanti, e fatti posteriori resi roboanti. Troppo spesso l’indagine storica è mossa da interessi presenti che inficiano un obiettivo sguardo al passato; pertanto un primo passo può risiedere nel diffondere il genere di resoconto che qui riportiamo: è pleonastico dire che taluni non vi troveranno nulla di amaro o di insolito; orbene, non farà male a costoro tenere a mente che è proprio questo genere di indifferenza che, anche storicamente, è proceduta in senso contrario ai tentativi di annichilare simili barbarie, operate sotto l’egida di una (improbabile) giustizia.

Siamo in Francia, maggio 1958. Il Paese è travagliato da una situazione di precarietà diffusa, e c’è chi auspica un ritorno al potere del generale De Gaulle, che secondo il presidente Coty è «l’uomo la cui incomparabile integrità morale può assicurare la salvezza della patria»; il primo giugno De Gaulle si presenta all’Assemblea chiedendo, ed ottenendo, i pieni poteri.
Non era difficile intuire che il fine ultimo del generale era quello di arginare o, meglio, liquidare la parte comunista, (anche) attraverso un sistema elettorale creato ad hoc. Infine la Costituzione approvata il 18 settembre fece il resto, infatti non sarà arduo l’arguire che essa incentrasse la quasi totalità dei poteri nelle mani del Presidente; ed appunto la testimonianza che segue rientra nei sei mesi di “pieni poteri”.

Ricordiamo inoltre, che la sera stessa del 19 giugno 1959, giorno in cui venne diffuso il libro (La gangrène, da cui è tratto il seguente stralcio), quest’ultimo venne sequestrato dalla polizia; il procuratore della Repubblica emanò un comunicato, cui seguirono copiosi tentativi di coprire le responsabilità della polizia e i perspicui “abusi di potere” – placido eufemismo - da essi operati.

«S
ono stato arrestato il 29 novembre 1958, alle sei e mezza del pomeriggio, al n.146 di rue Montmartre da sei agenti, che mi hanno condotto alla caserma Noialles, a Versailles, dove arrivammo verso le sette e un quarto. Dopo avermi spogliato, tre agenti hanno cominciato a picchiarmi, sferrandomi per mezz’ora pugni al ventre, al petto, alle reni. Dopo mi hanno messo alla sbarra fissa, alla quale hanno applicato la corrente elettrica. Questa operazione è durata fino a mezzanotte, nel modo seguente: ogni mezz’ora mi staccavano per dieci minuti d’intervallo, perché potessi recuperare in parte le forze. Dopo un certo numero di applicazioni non riuscivo più a stare in piedi. A mezzanotte mi hanno fatto scendere in un sotterraneo , dove ho trascorso la notte.
Il 30 novembre, ho subìto un serrato interrogatorio da parte di sei agenti, che pretendevano da me confessioni sull’organizzazione dell’Fln e dei suoi responsabili, mentre mi rivolgevano espressioni volgari e mi chiamavano “sporca razza” [la vittima, Khider Seghir, era probabilmente un immigrato, ndc].
Il 1° dicembre, verso le nove della mattina, mi hanno messo nuovamente alla sbarra fissa, di cui ho già detto. L’operazione è durata fino a mezzogiorno. Alle 13, mi hanno condotto alla Dst, rue des Saussaies. Appena arrivati, un agente, che aveva il compito di interrogarmi, mi ha dato parecchi pugni al ventre. L’interrogatorio è durato fino alle 18. Verso le 20, m’hanno riportato a Versailles, dove ho trascorso la notte.
Il 2 dicembre, alle 18, gli stessi ispettori, fra i quali M.R*** (ricordo bene il suo nome, d’altronde era il più accanito contro di me), mi hanno “ripassato” per la terza volta alla sbarra fissa. L’operazione è durata circa due ore. Dopo, mi hanno picchiato con calci e pugni e altre prese diverse: torsione dei muscoli, delle braccia, delle gambe, fino a ficcarmi le dita nell’ano.
Poi le torture sono finite. Nelle giornate 3, 4 e 5 dicembre mi hanno sottoposto a interrogatorio. La mattina mi portavano alla Dst, la sera mi riconducevano a Versailles, così per altri quattro giorni. La sera del 9 dicembre m’hanno tradotto al carcere giudiziario, dove sono rimasto fino alla sera del 10 dicembre.
Quando sono passato dal giudice per la firma del mandato, ho dichiarato, alla stesso M.Batigne, le torture subìte, ma egli non ha tenuto conto delle mie dichiarazioni, dicendomi: “Conosciamo questa canzone, siete tutti uguali”.»

Nicola Serafini

* Il presente intervento nasce come vaga dissertazione attorno ad un passo dell’autorevole (e discusso) libro di Luciano Canfora: Democrazia, Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004 [II° ed. con una Postfazione dell’autore, st. ed., 2006]; a tale testo chi scrive riconosce pieno debito nella fattispecie, anche per la testimonianza qui riportata, citata nel testo (p.308) appena detto. In ogni caso, chi scrive si assume la piena responsabilità, anche per la linea scelta.



La falce senza il martello
L’ ’άρπη nel mito greco



L'άρπη (arpe) è il falcetto adamantino con cui Crono evirò il padre Urano[I].
Nel vasto e cangiante patrimonio mitologico ellenico, la falce riveste attributi iconografici non trascurabili e spesso assume una valenza fondamentale per lo sviluppo degli eventi.
Primo fra tutti, diacroni­camente, è l’atto supremo di ribellione, ovvero l’evirazione per mano di Crono “dai torti pensieri”[II] dei genitali pa­terni, esperita appunto per mezzo di un fal­cetto adamantino, incorruttibile e affilatis­simo, donatogli dalla madre Gea (Γη, la Terra).
Tentando di contestualizzare questo episodio, Gea era gravida di una copiosa prole, i Titani, ma si sentiva costipata poiché non poteva sgravarsi da tale peso, visto che Urano (Ουρανός, il Cielo) continuava pervicace ed instancabile a possederla ab aeterno; per questo la feconda Gea fabbricò l’ ’άρπη, che poi tornerà spesso nelle vicende mitologiche, quale strumento divino in se stesso, dono prezioso che gli dèi si tramandano l’un l’altro per le più gloriose vicissitudini[III].
Con questo non si deve cader nella tentazione di soverchiare questo atto di rivolta di eccessive sfumature, poiché è altamente improbabile che nella mentalità greca l’ ’άρπη possedesse dei connotati iconografici ad essa intrinseci, come e.g. è accaduto per la falce nel ventesimo secolo. Ciò non ostante, non ci si può neppure esimere dal tener conto che una minima valenza questo oggetto l’abbia rivestita, infatti è presente in molti punti fondamentali del racconto mitico.
Fra questi, la portentosa nascita di Pallade[IV] Atena, spettacolare e -saremmo oggi tentati di apostrofare come- scenografica.
Dopo acerrime battaglie per la supremazia sull’universo[V], Zeus “adunatore di nubi”[VI] era finalmente riuscito a giungere la sovranità ecumenica, quando Gea, preveggente poiché dotata di μητις[VII], gli predisse che sarebbe stato spodestato da suo figlio; egli pertanto ingoiò la propria consorte Metis, per risolvere il problema alla radice, la quale era gravida della dea Atena “dai bei capelli”[VIII]. Terminata la gestazione, quest’ultima balzò fuori dalla testa di Zeus, armata di tutto punto, lanciando un terribile grido di guerra.
Secondo la tradizione precipua[IX] fu “l’illustre fabbro”[X] Efesto a colpire la testa di Zeus per permettere alla sorellastra di nascere, mentre secondo Euripide[XI] fu Prometeo, e secondo altri[XII] ancora Ermes; in ogni caso ciò che ci interessa in questa sede fu la costante dell’ ’άρπη utilizzata per far nascer la dea “dagli occhi glauchi”[XIII].
Come terzo ed ultimo episodio, concluderemo con la celeberrima impresa di Perseo che decapita Medusa[XIV], l’unica mortale fra le tre Gorgoni, ovviamente con l’ ’άρπη. Anche in questo caso risulta ineluttabile fornire un minimo compendio degli antefatti.
Zeus, sottoforma di aureo pulviscolo, fecondò Danae, che era rinchiusa in una torre,
poiché l’oracolo vaticinò a suo padre Acrisio che sarebbe stato ucciso da suo nipote; quando ella partorì, pertanto, costui la rinchiuse in una cassa, assieme al neonato, che mandò alla deriva. I due approdarono nella corte del re Polidette, dove si stabilirono. Nel corso del banchetto di nozze, Perseo, il neonato figlio di Zeus e Danae, ormai cresciuto e vigoroso, proclamò boriosamente di recare come dono la testa di Medusa, e partì. Ricevette alcuni doni dalle ninfe: la κίβισις , la bisaccia ove riporre la testa recisa; i calzari alati che gli avrebbero permesso di volare a gran velocità, e il berretto di Ade, il quale rende invisibile chi lo indossa. Da ultimo, ricevette da Ermes la affilata ’άρπη adamantina, la stessa con cui Crono compì il sommo atto di ribellione. Numerosi furono i casi che egli dovette fronteggiare prima di compiere la missione, numerosi e suggestivi, ma indubbio pletorici per questo intervento. Fatto sta che dopo la riuscita impresa, Perseo restituì la ’άρπη ad Ermes, come tutti gli altri oggetti divini donatigli.

’Επίλογος

Dopo esserci piacevolmente intrattenuti con alcune far le più note vicende mitologiche, qui impunemente compendiate, ma comunque non scevre dell’afflato trasognato che le muove, non rimane altro che notare la sorprendente duttilità del racconto mitico e la sua unica facoltà di assumere, tralasciare e poi ancora riprendere, una serie copiosa di temi ed oggetti ricorrenti via via nei λόγοι; serie pressoché sterminata, poiché con la dovuta analisi, il patrimonio mitologico è sempre in grado di fornire nuovi spunti esegetici, come se non fosse mai stato cristallizzato in racconti immutabili.


Nicola Serafini



[I] Apollodoro, Biblioteca, I, 1, 4; Esiodo, Teogonia, v. 173 sgg.
[II] “ Κρόνος αγκυλομήτης”, Iliade, IV, v. 59; ma anche Esiodo, Theog., v. 168. [Qui, come di seguito, viene riportata unicamente la più antica attestazione dell’epiteto].
[III] Secondo Pausania (VII, 23, 4) Crono stesso scagliò la falce in mare, ma questa è una versione minore. Apollonio Rodio (Arg. 4, 982 sgg.) afferma che la falce fosse custodita presso l’isola dei Feaci, mentre secondo Callimaco (fr. 43, 69 sgg.) a Zancle.
[IV] “ Παλλάδ’ ’Αθηναίην”, Iliade, I, v. 200.
[V] Cfr. contro i Titani (Τιτανομαχία), contro i Giganti (Γιγαντομαχία) e da ultimo contro Tifone; in quest’ultima lotta, peraltro, utilizzò l’ ’άρπη per ferirlo (cfr. Apollodoro, Bibl., I, 6, 3).
[VI] “ νεφελεγερέτα Ζεύς”, Iliade, I, v. 521.
[VII] La mètis è quella particolarissima forma di intelligenza, intraducibile nell’idioma italico, che risulta dalla mistione di astuzia, preveggenza, intuito, capacità di “trovare sempre una soluzione”…Un intero mirabile testo, assurto a pietra miliare degli studii mitologici, verte esclusivamente sulla definizione di questo poliedrico ed evanescente concetto: M.Detienne, J.P.Vernant, Les ruses de l’intelligence, La mètis des Grecs, Flammarion, Paris, 1974 [trad.it. di Andrea Giardina, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1978 (ult. Ed. 2005)].
[VIII] “ ’Аθηναίης […] ηυκόμοιο”, Iliade, VI, v. 273.
[IX] Cfr. Apollodoro, Bibl., I, 3, 6; Pindaro, Olymp., 7, 35; scolio a Iliade, I, v. 195; et cetera.
[X] “ ‛′Ηφαιστος κλυτοτέχνες”, Iliade, I, v. 508.
[XI] Cfr. Ione, vv. 454 sgg.
[XII] Cfr. scolio a Pindaro, Olymp., 7, 35.
[XIII] “γλαυκωπις Αθήνη”, Iliade, I, v.
[XIV] Apollodoro, Bibl., II, 4, 1 sgg.; la storia di Danae fu tema di tragedie di Sofocle [Acrisio, frr. 60-76 Radt] ed Euripide [Danae, frr. 165-170]; inoltre: Pindaro, Pyth., 12, 17 sgg.; Eschilo, Persiani, vv. 79 sgg.; et cetera.